giovedì 24 novembre 2011

Elogio della lentezza

La discussione si è aperta qualche settimana fa nel blog di Sergio Tavcar (“guru” del giornalismo sportivo, nonché amico dell’Associazione Costantino Reyer). Lo spunto è venuto insospettabilmente da un post sul calcio e da alcune reminescenze legate a talenti compassati come Rivera e Platini. Alcuni utenti hanno poi approfondito intelligentemente l’argomento, aprendo un interrogativo: com’è che diversi giocatori di grandissima classe, Bodiroga in testa, davano sempre l’impressione di essere “lenti”, ma inesorabilmente primeggiavano su tutti?

La discussione, ampliata dallo stesso Tavcar con un apposito post (“Pian e ben!” il titolo), ha finito col dare delle risposte solo apparentemente sorprendenti. In sostanza, ne viene fuori che la velocità non è in sé un parametro per misurare la bontà di un giocatore. È piuttosto la sua capacità di comprendere con rapidità  l’accadimento del gioco e di operare conseguentemente la scelta più opportuna, a caratterizzarlo come tale.

Nel basket moderno di schegge impazzite sono pieni i parquet. Giocatori dai garretti d’acciaio, ma dal quoziente intellettivo spesso prossimo allo zero, che molti coach pretendono di far diventare cavalli di razza, quando sono soltanto rapidi ronzini. Al contempo i giocatori in apparenza “lenti”, vengono messi in un angolo. Su di loro pesa l’imperdonabile colpa di non essere abbastanza veloci per il gioco dei nostri tempi. O peggio, sono additati come inadeguati al “SISTEMA” (perché magari provano ad interpretare le situazioni) elaborato dai novelli scienziati della palla al cesto (sì, perché, la definizione di allenatore è sentita ormai come riduttiva).

Alcuni utenti del blog hanno acutamente osservato come i giocatori di venti, trent’anni fa, rivisti nei filmati d’epoca, sembrano irrimediabilmente lenti. Oppure no? Non è che cercassero solo di ragionare e di trovare la soluzione più semplice per finalizzare l’azione? D’accordo, al tempo non era stata introdotta la regola dei 24 secondi, che ha spalancato le porte di questo sport a una quantità di giocatori privi di qualsiasi cognizione spazio-temporale. Il dubbio si insinua, mano a mano che la discussione si fa più ricca di riferimenti. E allora viene spontaneo chiedersi: quali giocatori di oggi corrispondono all’identikit di questa specie di atleti in via d’estinzione?

Rimanendo in casa nostra, quella reyerina, la risposta appare subito evidente. Guido Rosselli. Proprio lui, il giocatore che ha deciso la partita contro Montegranaro e ha dominato il supplementare a Biella. Ecco spiegato cosa ci faceva uno come lui in Legadue. Ecco perché a 25 anni non aveva ancora trovato spazio nella massima serie. Bravo, ma lento. Questo può aver pensato di lui qualche allenatore non esattamente illuminato. Bravo e intelligente, dovrebbe essere invece la risposta. E la massima vetrina nazionale dovrebbe essere solo la più ovvia delle conseguenze.

Il problema è che il suo profilo è in controtendenza. Sembra quasi che non avere muscoli pompati col compressore, essere intelligenti, muoversi con attenzione in campo, anche a costo di non correre come disperati, sprecando inutilmente energie, andandosi a schiantare contro difese sempre meglio piazzate, siano diventate delle colpe piuttosto che dei meriti. La capacità di “vedere il gioco”, di giostrarsi in più ruoli, di non arretrare di fronte al contatto se necessario, fanno parte del bagaglio di Rosselli.  Per fortuna della Reyer, il primo criterio per scegliere un giocatore da parte di Andrea Mazzon, è proprio l’intelligenza cestistica.

Se la stagione veneziana dovesse mettersi sui giusti binari e al riparo da profondi patimenti di classifica, il buon Guido da Empoli potrebbe davvero candidarsi a rivelazione del campionato. A patto che il “piano ma bene” faccia breccia nelle menti degli addetti ai lavori. E qui sì che ci vorrebbe una capacità di cambiamento di velocità supersonica.

lunedì 7 novembre 2011

Reyer, ultimo jolly della Città

''Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare, però non ti puoi risvegliare con l'acqua alla gola, e un dolore a livello del mare: il Doge ha cambiato di casa e per mille finestre c'è solo il vagito di un bimbo che è nato, c'è solo la sirena di Mestre...''

Chissà come Francesco Guccini riscriverebbe la celebre canzone alla luce delle ultime schermaglie tra il Comune di Venezia e la Reyer. Forse la citazione poteva calzare nel 1990, quando dall' Arsenale la squadra finì in terraferma animando il dibattito cittadino, ma ora bisognerebbe inserire riferimenti a Treviso, quadranti di Tessera, Pili e nuovi luoghi-non luoghi della città. Anche Guccini si tirerebbe indietro: missione impossibile.

Una città condannata all' oblio sportivo, dopo la lenta eutanasia calcistica che ha creato una squadra che è arancioneroverde anzi no, neroverde ma bianca, in città storica ma guai a non chiamarla Unione, public company ma in mano ai russi e comunque in serie D e che del salotto buono del basket aveva solo romantici ricordi, che un bel giorno si risveglia nell' Olimpo della palla al cesto.

La spinta di un presidente generoso quanto ingombrante, che spariglia le dinamiche cittadine tirando fuori moneta sonante (caso più unico che raro... dopo tanti ''foresti'', predoni o avventurieri), ma che in cambio chiede di guidare lui il salto di qualità. Un Comune martoriato dai tagli e dai patti di stabilità, assuefatto alla rarefazione sportiva cronica, che forse si trova al posto giusto nel momento sbagliato, e forse rassegnato a certificare dai notai i fallimenti delle varie squadre cittadine.

In mezzo c'è una città che vive già i suoi problemi identitari, tra crisi occupazionali, nuovi cittadini, pulsioni e crisi varie. Una città che comunque si ritrova attorno ad un pezzo di storia importante, quella storica Reyer 2.0 riverniciata di nuovo che trascina al palazzetto migliaia di appassionati entusiasti. Il palazzetto, appunto. La casa della Reyer, il luogo in cui si celebra il massimo rito sportivo cittadino, in cui Venezia, Mestre, Marghera, Burano e Campocroce di Mirano si trovano uniti a tifare per il ''glorioso vessillo''. E nell' anno 2011 non è poco. Il problema è che il palazzetto, la casa, è fuori dal fuori porta, un esilio a tempo indeterminato in attesa che la partita a scacchi su lavori di adeguamento e concessioni si risolva anzichè protrarsi. Ma, sfortunatamente, tra i due litiganti il terzo non gode affatto.

E su questo sia l' amministrazione che la società dovrebbero riflettere seriamente. Che senso ha una squadra esiliata ad interim? Cosa porta alla comunità veneziana, metropolitana o mestropolitana che sia, un esodo quindicinale di 4500 innamorati affamati di pallacanestro? Venezia, Mestre, le isole e la terraferma hanno ora più che mai bisogno di ritrovarsi intorno ad un simbolo, che viva la città, la rianimi, vivifichi dopo troppi anni di naftalina, ma soprattutto abitare un luogo, paradigma mignon della città stessa.

Uno degli ultimi jolly da giocare si chiama Reyer, l'amministrazione dovrebbe gettare il cuore oltre l'ostacolo, la società investire su Venezia Comunità: la prova d'amore i veneziani l' hanno già data, troppe volte.

D.Marchiori - Pres. Ass. Culturale C. Reyer

giovedì 3 novembre 2011

L'Eurolega cancellerà il basket di provincia?


Ha lanciato un bel masso nello stagno del basket italiano. Dopo una settimana fanno ancora discutere le dichiarazioni del numero uno dell'Eurolega Jordi Bertomeu sul mondo dei cesti tricolore. La questione importante, però, non è cosa ha detto o cosa sia stato riportato sulla qualità del basket in Italia e della sua gestione (su quest'ultimo punto ce ne eravamo già  fatti un'idea da soli). 

Il tema vero è il futuro "transnazionale" della pallacanestro europea. L'Eurolega passerà davvero dall'essere una coppa "allargata", a un campionato a tutti gli effetti? (L'obbiettivo a quanto pare è prioritario e il prossimo allargamento della seconda fase lo dimostra). Che fine faranno le leghe nazionali? Avrà ancora senso investire per una squadra che non milita nel miglior campionato esistente, mentre i grandi club europei giocheranno tutti tra loro? 

Esemplificativo è il caso di Siena. Una città da 60mila abitanti - a quanto pare - non potrebbe sostenere nel lungo periodo una squadra da Eurolega. A prescindere dai risultati. E il fatto che la Mens Sana guardi a Firenze viene accolto come un buon segnale. 

Il ragionamento che ne scaturisce è più o meno questo: o un club fa riferimento ad una grande città (Milano, Roma, Torino); o rappresenta un territorio più vasto, come una regione (vedi  la squadra di Vitoria -  il Baskonia - in Spagna). Oppure è destinato ad accontentarsi di un campionato nazionale dove non è più possibile incrociare le squadre migliori  in circolazione. Con conseguenze sul livello di competitività e di attrazione dei tornei nazionali tutte da valutare. Specie, in Italia, dove le realtà di provincia hanno storicamente costituito la spina dorsale del movimento.

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